Accueil - Sommaire
La méditation
Activités - Groupes
L'enseignant
Toucher le cœur
Les rendez-vous
Qu'est-ce que le Zen ?
Orient-Occident
Essais
Causeries
Enseignements
Textes classiques
Télécharger
Le réseau BASE
Le blog zen
Bodhidharma
Dôgen
Gudô
Jiun sonja
Album photos
Expériences
Digressions
Humour
Bouquins
FAQ
Poésie
Section membres
Mises à jour
Plan du site
Nous soutenir
Mentions légales


Une recherche rapide par mot-clé sur le site ?



Recevoir la lettre d'information ainsi que la liste des mises à jour mensuelles :







La via dello zazen

Rindô Fujimoto rôshi


Questo testo è uno dei primissimi manuali di meditazione (e forse addirittura il primo in assoluto) ad esser stato pubblicato in inglese. Si tratta della traduzione di un opuscolo tratto da una conferenza del maestro Sôtô Rindô Fujimoto. Fu pubblicato nel 1966 da Elsie P. Mitchell (dell’Associazione Buddhista di Cambridge - Massachusetts) che aveva ricevuto i voti buddhisti da Fujimoto quattro anni prima, in Giappone. Rindô Fujimoto, nato nel 1894, praticò sotto la guida Daiun Sogaku Harada (1870-1961), il maestro zen della scuola Sôtô che inserì la pratica dei kôan per ritornare poi alla pratica, più ortodossa, dello "star solo seduti" (shikantaza). Fu anche responsabile di meditazione (tantô) al monastero di Sôjiji, à Yokohama.

Il testo è stato tradotto in italiano e riprodotto grazie alla cortese autorizzazione di Elsie P. Mitchell e di David Chadwick (www.cuke.com). I caratteri cinesi sono stati soppressi nelle note. Traduzione di Mauro G. A. Rosi. Versione inglese. Versione francese.


La via dello zazen, Rindô Fujimoto, Rôshi. Versione inglese: The Way of Zazen, tradotta da Tesuya Inoue, Jushoku e Yoshihiko Tanigawa, Cambridge Buddhist Association 1966 – Tutti i diritti riservati).


Prefazione all'edizione inglese (1961).

The way of Zazen : Front coverL’autore di questo saggio, Rindô Fujimoto rôshi (cioè maestro di zen), è nato alla periferia di Kobe nel 1894. Figlio di un ufficiale, è stato ordinato monaco zen prima dell’adolescenza, nell’ordine Sôtô, e ha dedicato tutta la sua vita allo studio e alla pratica del Buddhismo. Già da studente, conobbe il satori, cioè una profonda esperienza d’illuminazione. Essendo uno studente eccellente, fu incoraggiato a seguire la carriera accademica, ma preferì ritirarsi nel tempio Sôtô di Hosshinji. L’abate di Hosshinji, Sogaku Harada, era un monaco Sôtô formato nella scuola Rinzai; dal punto di vista dottrinario, era conosciuto come rigorista.

Poco dopo l’entrata a Hosshinji, Fujimoto fece la conoscenza del maestro zen Tôin Iida. Iida rôshi aveva praticato da laico nel ramo Rinzai dello zen fino all’età di sedici anni, quando diventò monaco Sôtô. Il suo tempio, Shôrinji, chiamato così ad imitazione del tempio di Bodhidharma* in Cina, è piuttosto originale ed esiste solo come luogo di meditazione. Contiene una piccola sala di meditazione dal pavimento di terra (normalmente queste sale hanno delle mattonelle) ed alcune altre salette in un’ala adiacente. Fujimoto assistette Iida Rôshi nel suo tempio prima di diventare Tantô (insegnante di meditazione) nel principale tempio Sôtô, Sôjiji, nei pressi di Yokohama. L’abate di Sôjiji di quel tempo, Kodo Akino, è citato per aver detto "Bodaidharma non è a Shôrinji, in Cina, ed il sesto patriarca, Hui Neng, non vive sul monte Sokei: sono qui". Dopo la morte di Maestro Iida, Fujimoto rôshi succedette al suo insegnante come Maestro principale di Shôrinji, dove dopo otto anni fondò un gruppo laico. Questo testo è l’adattamento di una lezione data a quel gruppo.

Fujimoto rôshi vive solo nel suo tempio, deve riceve le visite di coloro che vogliono imparare lo zazen (meditazione). La sua vita è austera anche secondo i criteri monacali giapponese. Mangia solo pasta e verdure buttate via dai venditori perché non più fresche. La sua unica stravaganza è rappresentata dai libri di seconda mano, di cui è un lettore prodigioso. Fujimoto rôshi non chiede ai suoi discepoli, laici o monaci che siano, di praticare l’austerità e di imitare il suo modo di vivere. E’ completamente felice della sua semplice esistenza, che è per lui un piacere, e non una forma spartana di sviluppo personale. I suoi discepoli laici sono in generale gente che lavora. Il più anziano è un bisnonno. Quest’anno [1961, n.d.T.], quando l’autore di queste righe partecipó ad una sessione di meditazione di un giorno, il più giovane meditante aveva sei anni ed era venuto col papà portandosi un cestino della colazione grande come quello di un adulto.

Quando chiesero a Fujimoto rôshi come bisognasse presentarlo nella prefazione a questo libro, rise e rispose: "Basta dire che sono un monaco buddhista che vive vicino a Kobe". A questo, ho voluto aggiungere qualche elemento per quelli che non l’hanno mai incontrato. Ma per quelli che lo conoscono basti dire che è sempre stato un monaco buddhista.

* Il monaco indiano che introdusse la forma originaria di Zen in Cina.

Elsie P. Mitchell
Cambridge, Massachusetts
21 Giugno 1961


Introduzione

La meditazione (dhyâna) è vecchia quanto lo stesso Buddhismo. Attraverso di essa il suo fondatore indiano, Gautama Shâkyamuni, affrontò la questione della sofferenza e della morte, non avendo trovato soddisfazione nella ricerca filosofica, nell’ascetismo e nei riti.

La meditazione, i precetti, la carità a la reverenza per tutte le interrelate e interdipendenti forme di vita costituiscono la base del buddhismo, sebbene la debolezza umana e la rigidità istituzionale si siano spesso date la mano per ridurre questi ideali e queste pratiche ad un vuoto formalismo. Tutta l’arte e la filosofia buddista di un certo livello è emersa dalla realizzazione e dall’armonia di questi aspetti vitali. Ogniqualvolta il Buddhismo è scaduto nella pedanteria e nell’estetismo, un ritorno ai fondamenti ha radicato nuovamente la tradizione nella dimensione delle preoccupazioni essenziali cui appartiene.

I maestri indiani di dhyâna riunirono intorno a sé dei discepoli in Cina molto prima che la setta Chan (Zen in giapponese) fosse creata. Nella setta buddhista giapponese Tendai, la meditazione era riservata ai monaci e, come anche in Cina, lo Zen poté svilupparsi come entità separata solo dopo un certa mondanizzazione del Tendai. Nel periodo Tang, dopo molti secoli di rivalità e di alterni favoritismi da parte degli imperatori successivi, Taoismo e Buddhismo finirono col mescolarsi. Ne risultò una mentalità prorompente e vitale, che si esprimeva, in modo tipicamente cinese, attraverso un grande rispetto per il lavoro, in un quadro di vita semplice.

In America e in Europa, un certo zen con inclinazioni taoistiche ha destato considerevole interesse, nell’ambito di un approccio piuttosto umanistico. Lo zen popolare occidentale ha qualcosa da offrire un po’ a tutti, non esige nulla dai suoi adepti e offre una religione senza religione, come pure un mezzo formidabile per "prendere la vita com’ È". Questo Zen non buddhista si adatta bene ad una cultura indaffarata e prospera, che dà poco valore a ciò che non ha un’utilità tangibile e immediata, facile da ottenere. E’ fuori discussione che questo zen ha qualcosa da offrire ai puritani stanchi di tante screditate crociate e utopie moralizzatrici, incapaci di trovare interesse o piacere nelle liturgie e nei dogmi tradizionali dell’ortodossia giudaica o cristiana.

Un altro tipo di Zen non buddhista ad avere avuto un successo popolare in Occidente è una specie di concentrazione yogica praticata da artisti e spadaccini giapponesi, e da altre persone desiderose di conseguire un’autentica maestria nella loro arte. E’ una pratica che richiede, in Giappone, anni di esperienza e la guida di un buon insegnante.

La meditazione, disciplina praticata dalla più parte dei patriarchi prima e dopo l’illuminazione, non è mai stata molto popolare nei paesi buddhisti. Eppure è praticata oggi, in Asia del Sud-Est, come pure nel Giappone e nella Cina tradizionali, da un certo numero di intellettuali e di persone di ogni estrazione. La meditazione e il risveglio buddhista hanno influenzato culture molto diverse ben al di là del numero di praticanti. I simboli buddhisti e lo spirito dell’etica buddhista sono espressioni dell’esperienza d’illuminazione del fondatore, senza la quale il carattere essenziale dei suoi insegnamenti sarebbe annegato nel mare della pedanteria più astrusa e delle trasformazioni più ambigue e complicate. La tradizione buddhista comprende un ricco bagaglio di intuizioni morali e metafisiche espresse dei modi più diversi, emerse dall’interazione della pratica meditativa con le condizioni storiche e geografiche più diverse. Laddove ha potuto resistere all’assimilazione istituzionale o di altro tipo, il Buddhismo ha conservato integrità e vitalità. Le quali risultano dalla sua specifica interpretazione e dalla pratica del samâdhi (l’essere totalmente assorto nella meditazione), che rende gli insegnamenti del fondatore accessibili a chi è stato educato in contesti culturali più semplici come in quelli più sofisticati: nelle società rampanti e in pieno decollo, come in quelle più statiche e più ontemplative. Nel Buddhismo Mahâyâna, o del Nord, l’esperienza dell’illuminazione, successiva a quelle del samâdhi, permette una grande flessibilità espressiva. Tale flessibilità sottende un’unità che si espressa al meglio nelle culture in cui si è radicata. La meditazione è per il Buddhismo ciò che la preghiera rappresenta nel Cristianesimo. Senza meditazione o senza preghiera, una religione è solo uno dei tanti sistemi concettuali o fideistici da manipolare in accordo con i gusti e le preoccupazioni del momento.

Gli occidentali, e gli americani in particolare, pensano a volte che la meditazione ed altri aspetti del "misticismo indiano" siano responsabili della povertà e di altri problemi dell’Asia. Questa visione sembra essere una reductio ad absurdum delle complesse e a volta paradossali elaborazioni della legge di causa e effetto. Le istituzioni e le discipline buddiste possono essere usate male ed essere corrotte, e rappresentano tutte degli sforzi umani e limitati. Eppure, attraverso i secoli, i monaci e i laici buddhisti sono stati riformatori sociali, diplomati ed educatori; hanno creato ospedali, orfanotrofi e ospizi per gli anziani. Cinque cento anni prima di Gesù Cristo il fondatore indiano del Buddhismo aveva rigettato il rigido sistema delle caste del suo paese; il re buddhista Ashoka (250 a.C.) intraprese quello che possiamo certamente considerare, anche secondo criteri moderni, un ambizioso programma di riforme sociali basato sui principi buddhisti. Nel XVII secolo, il monaco giapponese Tesugen perì con altri suoi discepoli a causa dell’infezione contratta nel nutrire e nel curare i poveri durante una carestia.

Indipendentemente dai vantaggi materiali o psicologici inerenti a queste attività altruistiche, il Buddhismo è anzitutto un orientamento spirituale e una disciplina. Il contemplativo che si dedica interamente alla meditazione e all’insegnamento della sua disciplina è il cuore e il sangue vitale della sua religione. Il risveglio a ciò che è stato definito "coscienza cosmica", una comprensione e una certa accettazione (senza necessaria acquiescenza) del karma, cioè delle buone e cattive conseguenze delle proprie e delle altre disposizioni e azioni: sono queste le basi su cui riposano la compassione e l’altruismo buddhisti. Considerato in se stesso, l’altruismo verso la famiglia, la razza o anche la specie non appartengono allo spirito buddhista, e il confort materiale e fisico non sono il summum bonum buddhista della vita. Tuttavia, pratica e visione possono trovare espressione solo a livello fisico e storico. Il samâdhi buddhista non è un ritiro o una fuga dal mondo. Il principe indiano che fondò il buddhismo rinunciò alla tentazione di usare il samâdhi per il suo piacere e il suo comodo, e spese quarantacinque anni a condividere la sua esperienza. Il Cristo morì per l’umanità; il Buddha visse per il suo prossimo. Dopo aver fatto l’esperienza della "notte buia dell’anima", il Buddha morì per rinascere sotto l’albero del Bodhi, e la sua vita dopo questa risurrezione conta per i buddhisti quanto la morte e la resurrezione di Gesù Cristo per i cristiani.

Secondo uno dei malintesi prevalenti sullo Zen (tra i giovani giapponesi come tra gli occidentali), i suoi seguaci si imporrebbero una disciplina che li trasformerebbe in una specie di superuomini liberi di ignorare i precetti buddhisti, come pure ogni altra convenzione e considerazione per gli altri. Lo zen Rinzai era la religione favorita dei samurai, per i quali la flessibilità dell’azione in rapporto alle circostanze era più importante della consequenzialità dei principi astratti. Tuttavia, questa concezione non implicava il tipo di libertà a cui pensano i moderni. Per i buddhisti occidentali è importante evitare ogni forma di ascetismo autosufficiente e di moralismo cieco e senza riguardo. Un altro impedimento alla pratica del Buddhismo è d’altra parte rappresentato dalla tentazione di far passare per "illuminazione" ciò che ci fa comodo e ci gratifica.

Gli scritti di alcuni monaci buddhisti, espressione del loro samâdhi o del satori, tendono a veicolare l’impressione di una specie di paranoia cosmica. Va ricordato al riguardo che il trionfo dell’arhat (colui che ha raggiunto l’illuminazione) è il controllo del suo stesso spirito, e la vittoria contro l’ignoranza attraverso il Dharma (verità cosmica) o l’esperienza del satori. La grande libertà del mistico buddhista non è la libertà d’essere senza riguardo e immorale a volontà nel suo personale interesse. Le descrizioni del samâdhi e dell’illuminazione sono spesso fuorvianti per i principianti.

Nello Zen giapponese di oggi, esistono tre scuole. La Rinzai, la Sôtô e l’Obaku. Il preti zen vanno ad esercitarsi ogni tanto presso dei monasteri appartenenti alle altre scuole. Dopo essersi realizzati, modificano in conseguenza il loro approccio della pratica. Per l’Occidentale che volesse praticare la meditazione, le minime differenze tra una e l’altra di queste scuole non ha importanza. La prima cosa migliore da fare è trovare, se possibile, un buon istruttore. Se non è possibile, si potranno seguire, dovunque e quasi in ogni circostanza, le istruzioni scritte di un maestro. La pratica rinzai dei kôan richiede il contatto, almeno occasionale, di un maestro. Il kôan (una specie di quesito esistenziale) e la sua interpretazione da parte di fonti più o meno attendibili hanno avuto un ruolo importante nel volgarizzare lo zen. In alcuni casi, hanno creato delle intrepretazioni erronee.

Non ripeteremo mai abbastanza che lo zazen buddhista non è una tecnica per conquistare o acquisire qualcosa, da applicare come si seguono le ricette di cucina. E non è neanche una psicoterapia "fai-da-te", un calmante o un modo per stimolare l’incosciente creativo. Anche se si attribuiscono, e non a torto, molti vantaggi fisici e psicologici alla sua pratica regolare, lo zazen buddhista non può essere ridotto a uno strumento per ottenere questo tipo di obiettivi. Altrimenti è un’altra cosa e presenta vari limiti. Lo zazen sôtô è una via esistenziale nello stesso senso in cui lo sono alcuni tipi di preghiera. I paragoni e i tentativi di valutazione dei diversi metodi e degli insegnanti hanno poco senso anche agli occhi di coloro che hanno già una certa esperienza della meditazione. Un principiante dovrà trovare un insegnate riconosciuto che rispetterà, e dal quale sarà accettato come allievo. Il metodo dell’insegnate dovrà essere seguito dell’allievo al meglio delle sue capacità. E’ inevitabile che all’inizio si facciano più domande sul metodo che su se stessi. Tuttavia, passare da un insegnante e da un metodo all’altro, se non è giustificato dalle circostanze, provoca spesso delusione e spreco di energia. Certo, si può praticare zazen tanto per fare un’esperienza. Ma se questo tipo di atteggiamento non viene superato, lo zazen buddhista è impossibile.

Dei cristiani ed altri non buddhisti ci hanno chiesto se la meditazione zazen può essere praticata da persone che appartengono a delle religioni diverse dal buddhismo. Non è necessario essere buddhista per praticare lo star seduti nella calma, in un contesto psicologico non-buddhista. Tuttavia, mettiamo in guardia i cristiani abituati a pregare una divinità personale, affinché non mescolino zazen e preghiera. Le due cose possono essere complementari, se coloro che praticano la preghiera non agiscono per fini personali. Ma durante zazen ogni riferimento ad un Infinitamente Altro dovrebbe essere messo da parte.

Alcuni Occidentali sono riluttanti ad assistere alla parte rituale delle sedute di zazen dei gruppi buddhisti. Lo zazen può, evidentemente, essere praticato senza riti e senza preghiera, cioè con il semplice star seduti. L’esperienza dello zazen, che sia buddhista o no, si esprime in seguito nella vita di tutti i giorni. Molti sono aiutati nella meditazione da ciò che un maestro ha definito "il samâdhi canoro", sopratutto in assenza dell’incoraggiamento e delle correzioni di un istruttore. Cantare dà forza e può richiamare l’attenzione del principiante sur suo io irrequieto, che tende a oscillare tra protesta e disperazione. Lo zazen intensivo, che risulti dall’incontro esistenziale con un koân naturale – "Perché l’ingiustizia o la sofferenza?", per esempio – può dar luogo a un malessere mentale e fisico. La preghiera può allora in qualche caso essere utile; ma per pregare sembrerebbe necessaria la fede. Si può per altro cantare un breve sûtra (scrittura buddhista) o un mantra (cioè una frase) con un po’ di scetticismo: solo la perseveranza è indispensabile.

In molte culture in cui è stato introdotto il buddhismo, i suoi aspetti filosofici e etici sono stati i primi ad aver ottenuto un certo favore, e questo presso alcune minoranze caratterizzate da un alto livello d’educazione. In Giappone, questa fase è stata seguita da quella dall’elaborato rituale del periodo Heian. Il Buddha stesso provò tutte queste cose prima di ottenere l’illuminazione: fu solo dopo aver esaurito tutte le altre possibilità che decise di passare davvero alla meditazione seduta. Nel Giappone del periodo Kamakura ci furono tanti cambiamenti culturali e sociali, che provocarono un certo allontanamento dai riti meccanici e idolatraci che avevano ispirato gli aristocratici del periodo precedente. Il moralismo ascetico era diventato un formalismo vuoto e sufficiente. Quelli che cercavano una comprensione della vita più attuale e più ampia furono attirati dalla semplicità e dall’integrità del metodo dei maestri cinesi del Chan. Quando i monaci giapponesi ebbero assimilato l’esperienza zen, consolidandola, fu possibile riassorbire, riaffermare e ravvivare gli elementi originari delle sette più anziane.

Nella vita di coloro che perseverano nello zazen, le cose che per loro sono giuste e migliori acquisiranno un nuovo significato. Ciò che inessenziale e fatuo sarà messo in disparte. Con o senza istruttore, il processo è sempre difficile. E’ naturale che la gente cerchi le sue radici nella tradizione e nelle convenzioni. Che le cerchi nei mestieri e nelle relazioni (e funzioni) famigliari, professionali e comunitarie. La realizzazione zen non nega queste cose, ma le mette in questione profondamente per assegnar loro un posto nello schema cosmico dell’esistenza. L’amore, l’abnegazione e la carità sono espressioni naturali del satori buddhista: liberate dello loro ambizioni egocentriche e utopistiche, che spesso creano più problemi di quanti non ne risolvano, sono dei segni di profondità e di un tipo particolare di integrità. Lo zazen e la vita quotidiana si fondono in una sola cosa solo dopo il risveglio di un autentico sguardo interiore, e dopo costruzione di un nuovo rapporto con il "Fondamento dell’Essere", e con tutti gli esseri.

E. P. Mitchell


La via dello zazen

Fujimoto roshiIn Giappone esistono tre rami zen indipendenti (Sôtô, Rinzai e Obaku). Si tratta di strade diverse che conducono tutte allo stesso obiettivo, e che utilizzano la pratica dello zazen. Sebbene il fine ultimo sia lo stesso per tutti, i mezzi per arrivarci, in qualche modo, differiscono.

In ogni sôdô [1] ci sono pratiche diverse. Tuttavia, descriverò solo quelle che conosco per esperienza personale, e che utilizzo per i miei allievi. A dispetto di qualche disparità superficiale, credo che la mia esperienza non contenga nessuna differenza fondamentale rispetto all’esperienza degli altri praticanti di zazen.

Dôgen (Jôyô Daishi), fondatore della scuola Sôto Zen, non voleva creare un nuovo tipo di buddhismo. Non aveva nessuna predilezione per lo scissionismo o per il settarismo, e d’altronde il termine "zen" non gli piaceva. Nella sua giovinezza aveva studiato con vari maestri nel suo paese. Tuttavia, insoddisfatto della sua concezione decise infine di cercarsi un maestro in Cina, e sotto la sua guida fece l’esperienza della illuminazione. Quando ritornò nel suo paese, fondò un centro di meditazione in montagna, dove trasmise una disciplina rigorosa, conforme allo spirito del Buddhismo. Vorrei solo aggiungere che guardate da un "occhio" zen, le radici della scuola Sôtô si identificano con lo spirito stesso del Buddhismo. Senza l’"occhio" zen, credo sia impossibile afferrare lo spirito della dottrina buddhista.

Gli accessori necessari alla pratica dello zen sono i seguenti: Prima di tutto, uno zafu [2], cuscinetto rotondo, del diametro di una buona trentina di centimetri. Ogni praticante di zazen dovrebbe avere, se possibile, il suo proprio zafu.

Poi, è una buona idea per i principianti avere al lato una matita e un pezzo di carta, durante lo zazen. Ma non è necessario. Durante le sedute ci vengono in mente molte cose importanti, ed è una buona idea prenderne nota quando [3]. A volte ci vengono in mente dei problemi mentre leggiamo o siamo occupati in qualche altra cosa, e ci diciamo allora che penseremo a risolverli più tardi. Solo che quando questo "più tardi" viene, i problema li abbiamo dimenticati. Durante lo zazen vengono in mente molte cose e il meglio è prenderne nota immediatamente per scritto, in modo da liberare lo spirito per lo zazen.

Non sempre è possibile praticare lo stare seduti in un sôdô ufficiale; dobbiamo arrangiarci tenendo conto del tempo e dello spazio a nostra disposizione. In questa lezione tratterò della forma e del contenuto dello star seduti, due cose che devono essere armonizzate. La forma corretta (l’aggiustamento del corpo e del respiro) provoca uno stato mentale giusto. Idealmente, dovremmo essere in grado di praticare in ogni momento e in qualsiasi luogo.

Shâkyamuni fu illuminato attraverso la pratica dello stare seduti. Così, noi della scuola zen seguiamo la stessa via. In alcune altre sette buddhiste, la dottrina o la filosofia vengono prima della pratica. Nella scuola Sôtô, la pratica precede la teoria. La "sperimentazione" [4] è la cosa più importante ed è necessario seguire le istruzioni di un maestro che abbia una certa esperienza.

Parliamo ora della giusta posizione del corpo. Seduti sul vostro cuscino, mettete la gamba destra sulla coscia sinistra eppoi la gamba sinistra sulla coscia destra. E’, questa, quella che chiamano la posizione del loto. Se non vi è possibile sedere in questo modo, mettete solo la gamba sinistra sulla coscia destra. E’ la posizione detta "mezzo paryanka (Sanscrito) formale". E’ ?"formale" perché ne fa riferimento il Fukanzazengi, [5] ovvero le "Istruzioni per lo zazen" di Dôgen, fondatore della scuola Sôtô giapponese. Immagino che la ragione per cui si piazza la gamba sinistra in alto è dovuta al fatto che la gamba sinistra simbolizza la quiete, mentre la destra l’attività. Si dice anche che la sinistra è un simbolo del Fugen, [6] e la destra del Monju [7]. Ecco perché la sinistra, tradizionalmente, sta sopra l’altra [8]. Sebbene la posizione del mezzo loto sia accettabile, è meglio sedere nella posizione del loto integrale (kekkafuza, in Giapp.), se vi è possibile. Tuttavia, ciò è difficile e principianti che fanno meditazione si sentono rapidamente a disagio in questa posizione. Nel mio tempio, ognuno siede nel modo che gli è più confortevole. In altri templi, si deve chiedere il permesso nel caso in cui di voglia adottare il mezzo loto, con la gamba destra sopra.

La cosa seguente da fare è saper equilibrare il corpo correttamente. Bisogna inclinare il corpo prima a destra, e poi a sinistra. Ciò distenderà e rilasserà chi sta seduto. Ondeggiare da un lato all’altro stabilizzerà la posizione.

E’ importante indossare abiti sciolti, che non tirino e non stringano dappertutto (come certi pantaloni). Quando stiamo seduti a lungo, diventiamo rigidi, sopratutto durante i sesshin. [9] Anche coloro che sono abituati allo zazen fanno spesso l’esperienza di questo tipo di difficoltà. Quelli che non sono abituati a star seduti sono spesso soggetti a dei malesseri durante le sessioni molto lunghe. E’ perciò una buona idea massaggiare il fondo schiena prima e dopo zazen.

Tratterò ora del mondo in cui si devono tenere le mani quando si sta seduti. La posizione delle mani (inzô) [10] è importante. Tuttavia, non dovremmo concentrarci su di essa, e se la posizione delle mani cambia non dovremmo perciò distogliere la nostra attenzione. Per adottare la posizione corretta, ponete la mano destra, con la palma verso l’alto, contro l’addome, appena sotto l’ombelico, eppoi mettete la sinistra sulla destra esattamente nella stessa posizione. Poi mettete in contatto i pollici, in modo che trovino appoggio reciproco.

Ora, per quanto riguarda la parte superiore del corpo, è molto importante mantenere la colonna vertebrale assolutamente dritta; la testa si mantiene sulla sua stessa linea. Le spalle e la parte superiore del corpo devono essere distese e rilassate. Gli occhi devono essere tenuti aperti. Bisogna portare lo sguardo a circa due metri davanti a sé; le palpebre si chiuderanno leggermente in maniera naturale. Non cercate di guardare al di là della distanza di due metri, sennò sarà impossibile calmare la mente. E’ inoltre importante non mantenere gli occhi chiusi per più di qualche minuto, per evitare di avere sonno o sentirsi persi. Chiuderli per qualche attimo non è un problema, se ciò aiuta a calmare la mente, ma il contatto col mondo quotidiano non va perso. I Buddhisti non devono dimenticare che Shâkyamuni raggiunse l’illuminazione vedendo la luce della stella del mattino. Non dimentichiamo che il samsâra è nirvâna. [11]

Respirare correttamente è importante nello zazen, perché bisogna raggiungere l’armonia tra mente e respiro. Taisô Daishi credeva che certi stati mentali negativi erano indotti dalla mancanza di armonia tra questi due elementi. Prima di seder in zazen, alcuni respiri profondi aiutano a calmare lo spirito. Dopo aver ondeggiato a destra e a sinistra per trovare il giusto equilibrio, occorre respirare profondamente a partire dall’addome per alcuni minuti, prima di rivenire alla respirazione naturale. Respirazione che dovrà essere silenziosa, e non roca. E’ importante non ispirare tanta aria troppo a lungo, perché stanca.

Nella scuola Rinzai, si esagera forse un po’ la pressione sull’addome durante la respirazione. Non è bene insistere sull’idea che ci voglia un modo speciale di respirare. Qualche respiro profondo basterà a assicurare il centro di gravità della parte bassa del corpo. Prima ispirate lentamente attraverso il naso, usando l’aria per espandere l’addome quanto è possibile; poi espirate lentamente attraverso il naso finché l’addome è di nuovo contratto. E’ necessario che l’equilibrio sia centrato nell’addome. Il chikara, [12] che significa forza o potere nel ventre, è essenziale nella cultura fisica giapponese.

Tratterò ora del funzionamento corretto della mente durante lo zazen. I debuttanti mi espongono spesso i loro problemi, ma per me è difficile trovare il modo di autarli. A rispondere, non servono né risposte corte né complicate. Fare domande è legittimo, ma non è abbastanza. Per capire, bisogna sperimentare da sé. Dopo aver letto un libro sul nuoto, bisogna buttarsi in acqua e scoprire di cosa si tratta direttamente. Un libro non dà nessuna esperienza.

Esistono svariati modi di "calmare" la mente. Il primo consiste nel "mettere la mente nella mano sinistra", che significa proiettarla nell’inzô, cioè nella posizione della mano. L’inzô simboleggia il Buddha. Se la mente è nell’inzô, corpo e respiro saranno in armonia.

Nell’allenamento Rinzai, il kosoku kôan [13] è utilizzato per calmare (o chiarire) la mente. E’ un’ottima maniera di coltivare il modo di vedere Zen. Tuttavia, penso sia meglio sviluppare la condizione Zen attraverso lo shikantaza, [14] cioè attraverso il semplice star seduti, calmando la mente mettendola nella mano sinistra. L’occhio dello Zen trova origine nella condizione Zen, e l’illuminazione del Buddha non risiede nell’occhio, ma nella condizione Zen. Nel Sôtô Zen stiamo semplicemente seduti. E’, questo, il modo più naturale. Lo scopo principale dello zazen è il lasciare andare la mente e il corpo. Ma i Buddhisti fanno a volte un po’ troppo attenzione alla mente, cosicché non arrivano a liberarsene. Il kosoku kôan può essere utile, ma shikantaza è meglio perché la gente tende a insistere troppo sul kôan e sulla mente. Sebbene occorra mettere la mente nella mano sinistra, non si deve far troppo caso alla mente. Se facciamo troppo attenzione alla mano sinistra, riteniamo il satori. Mettere la mente nella mano coscientemente è un errore. Esistono vari tipi di buona meditazione: il satori è al di là di tutte queste varianti, ed è necessario attraversare tutti i diversi stati mentali per avere l’illuminazione.

Ci sono diversi livelli di buona meditazione, che sono poi soltanto prospettive sulla via dell’esperienza reale del satori. L’unico modo in cui sia possibile attraversare i diversi tipi di meditazione (stati mentali), è aver fede e perseveranza; si può andare al di là di questi stati solo sedendo nel giusto zazen. Ma non si tratta di stati mentali ideali, ma di stati che si trovano lungo la via dell’illuminazione. A volte, sono erroneamente interpretati come segni del grande satori, sicché i praticanti tendono a mantenersi in questi stati, anche perché sono piacevoli. Tuttavia, un’illuminazione statica è una impurità. C’è Realtà Assoluta solo quando andiamo avanti, abbandonando tutto. I Buddhisti Mahâyâna mettono l’accento sul mondo spirituale. D’altra parte, alcuni non sanno riconoscere il mondo spirituale. Nella nostra scuola Sôtô, alcuni monaci affermano che disciplinarsi allo zazen non serve; pensano che basti credere che possediamo la natura originale di Buddha e che siamo pieni di sporcizia (in Sanscrito: klesa). Dal punto di vista della fede, abbiamo tutti la natura di Buddha, o honshô [15] (illuminazione originaria). E siamo, in vero, tutti degli autentici buddha. E honshô myôshû [16] significa che l’illuminazione originaria in se stessa è myôshû, o pratica reale. I due – illuminazione originaria e pratica – sono nomi diversi per dire la stessa cosa; è così che la credenza in una illuminazione originaria viene realizzata sotto forma della pratica e della disciplina zazen. Non esiste risveglio senza pratica o senza disciplina. La via di Dôgen è la pratica continua in quanto espressione dell’illuminazione originaria, e non in quanto mezzo per raggiungere un fine. L’unica vera pratica consiste nello scordarsi l’illuminazione: ecco il vero honshô myôshû. Per questo, chi trascura la pratica non dovrebbe essere considerato buddhista.

Esistono molte sette buddhiste, che si suddividono in vari approcci disciplinari. Nella scuola Sôtô, chiamiamo "honshô myôshû" l’apogeo della dottrina. E’ in questa fede che pratichiamo da sempre. Per questo non fissiamo nessuna tappa particolare verso l’illuminazione, e non mettiamo l’accento sulla dottrina. Quando diciamo di mettere la mente nella mano sinistra, lo facciamo nello spirito dell’ honshô myôshû. Se mettete la mente nella mano sinistra con consapevole attenzione della mente o della mano, la relatività si istalla. Bisogna sedere in zazen dimenticando la mente e la mano sinistra.

Nello shikantaza, si ha spesso tendenza a scadere in un zazen negativo, fatto di apatia e sonnolenza. Per evitarlo, utilizziamo un koân chiamato genjô (letteralmente: "realizzato nel presente") che significa che il presente, tale e quale è, è la realtà del nostro mondo ideale. L’uomo che si attacca alla vita soffre in questo mondo, perché non sa vedere oltre i fenomeni. Tuttavia, gli illuminati guardano, attraverso il mondo relativo con tutte le sue limitazioni, alla realtà infinita e assoluta; sono perciò capaci di risiedere in questo mondo fenomenale come in un reame dello spirito. L’illuminato e il sofferente che si attaccano ai fenomeni transeunti vedono il mondo in modo diverso. E’ un mistero meraviglioso, che perciò si chiama koân.

I principianti di solito, trovano nello zazen che le loro menti sono confuse e perturbate. Ciò è naturale. Due sono i grandi ostacoli alla pratica dello zazen. Il primo è detto konjin, [17] che significa depressione, o una sorta di melanconia. Nel caso dei principianti il konjin è di solito sperimentato sotto forma di sonnolenza. I meditanti sperimentati, che hanno calmato e acquietato le menti, a volte si sentono quasi svenire. E se la condizione zazen viene approfondita, il meditante può finire nel musôjô, [18] o stato di "non coscienza". Alcuni credono che la mente zazen è semplicemente un perdita di coscienza, ma sbagliano. Nella giusta attitudine mentale zazen, non tutte le funzioni della mente sono attive, ma ciò non significa incoscienza, come nel sonno. La condizione mentale nello zazen è chiamata shônen sôzoku, [19] o "successione del giusto mentale". Il che è diverso dal "non mentale", che implica assenza di coscienza. E’ una buona cosa calmare le onde della mente, ma la sonnolenza o la mancanza di vitalità sono una tipo di konjin. Alcuni si sentono come avvolti da una fitta nebbia, o nella malinconia. Bisogna liberarsi da questi atteggiamenti mentali.

Il secondo ostacolo alla pratica dello zazen è chiamato jôko. [20] Per i principianti questo significa agitare nella testa una miriade di pensieri e di idee. I tipi di onde mentali sono due: il primo è quello delle idee create da dentro, il secondo è quello delle idee che vengono dall’esterno attraverso i sensi. Coloro che hanno un po’ d’esperienza dello zazen possono sentirsi esaltati, e saltar giù dai cuscini di meditazione credendo di aver raggiunto l’illuminazione. Ciò risulta a volte da sedute intense ma scorrette. Oppure credono di vedere la grande luce del Buddha, [[21] con sensazioni di estatica riconoscenza. Tali esperienze rappresentano un serio ostacolo; vanno superate il più rapidamente possibile.

Tali stati vengono considerati a volte delle forme di illuminazione. Ma sono il risultato della fatica fisica o mentale, oppure di malintesi sul senso del zazen. Quando lo zazen è diventato più profondo, si possono avvertire delle esplosioni di grande gioia. Il vero satori è chiamato "la mente della grande gioia". Questa gioia è però l’emanazione di una mente che ha trasceso tutte le gioie e i dolori relativi. Dobbiamo andare al di là di essi, poco importa che ciò appaia difficile e astruso.

Un modo per evitare il jôko durante le sedute è guardare il bordo del naso e poi far scendere la sensazione fino all’addome. Però non dobbiamo fare uno sforzo cosciente nel guardare al naso. Per evitare il konjin, possiamo concentrarci sul punto tra le sopracciglia fino al momento in cui questo punto si solleva e porta la sensazione alla fronte, per poi rimettere a fuoco lo sguardo o respirare profondamente e silenziosamente. I migliori rimedi contro jôko e konjin vengono dalla nostra stessa esperienza.

Il kyôsaku, [22] lungo bastone appiattito maneggiato dal monaco responsabile delle sedute nei sôdô giapponesi, è anch’esso un rimedio contro jôko et konjin. Quando ci sentiamo assonnati o con la testa in subbuglio, dovremmo chiedere il kyôsaku. Il suono del kyôsaku darà una svegliata anche a chi medita vicino a voi. Il kyôsaku è meglio di ogni alro espediente. Anche se non piace a tutti, non è una cosa cattiva. Quelli che non hanno mai fatto zazen pensano a volte che il kyôsaku sia una cosa orribile. Ma in realtà, durante le sedute i meditanti sanno apprezzarlo.

Se vogliamo ricevere il kyôsaku, dobbiamo fare gasshô [23] quando il monaco addetto è esattamente dietro di noi e inclina la testa da un lato. Il monaco che dirige la seduta è autorizzato a colpire col kyôsaku i meditanti, quando lo ritiene necessario. Specialmente durante i sesshin, anche quelli che hanno una buona esperienza dello zazen sanno apprezzare il kyôsaku. Ricevere sferzate da questo tipo di bastone è un’opportunità: è la spada di Monju, che spezza le illusioni.

Vorrei infine discutere dell’aggiustamento dei contenuti mentali. Prima, però, spiegherò il senso del daienkyôchi, [24] o grande specchio della mente. Anche se questo termine è sopratutto utilizzato in modo descrittivo nella scuola Vijñânavâda, [25a] io vorrei utilizzarlo per cercare di spiegare lo stato mentale zen.

I non illuminati hanno menti egocentriche, risultato dell’illusione. I loro atteggiamenti, i loro comportamenti sono egocentrici. [26] Ma il Buddha non presenta questo tipo di egocentrismo. La differenza tra non-risvegliati e Buddha risiede dunque nel grado di centralità dell’ego. L’aderenza all’ego è chiamata gashû; [27] La sua causa si chiama hosshû, [28] che è un tipo d’illusione creata da un malinteso riguardante i fenomeni: questi, infetti, non vengono considerati come parti interrelate e interdipendenti di una stessa realtà. Perciò, quando ci liberiamo dalla centralità dell’ego, la nostra mente è quella del Buddha, e la conoscenza illusoria si trasforma nelle quattro saggezze del Buddha.

Tra questi quattro, [25b] è il daienkyôchi la base per gli altri tre. Quando non siamo stabilizzati nel daienkyôchi, siamo isolati dagli altri e tale isolamento stimola l’attaccamento all’io.

Lo spirito mondano riflette tutti i fenomeni. Non appartiene né al mondo dell’illusione né a quello dell’illuminazione, ed è la condizione fondamentale da cui può scaturire l’uno come l’altro. Lo zazen, come pratica, trascende la sesta e la settima categoria mentale, [25c] e può trasformare l’arayashiki, l’ottavo stato, in una condizione illuminata e in daienkyôchi.

Mi piace usare il daienkyôchi per descrivere lo zazen, perché permette di evitare due malintesi abbastanza comuni. Secondo il primo malinteso, durante la pratica bisognerebbe avere una mente completamente vuota, o perdere coscienza. E’ una concezione errata sorta, forse, quando Hakuin Zenji disse, nella sua "Canzone della Meditazione", che dovremmo avere una mente della non-mente durante zazen. Ma questo significa in realtà che la mente rimane, anche se ha abbandonato ogni discriminazione. Se l’assenza di mente è interpretata alla lettera, la condizione alla quale si riferisce è allora la morte spirituale. E pare che sia stato il caso della meditazione in India, prima del Buddhismo. Lo zazen buddhista non è star seduti con una mente negativa vuota. I Buddhismo mahâyâna insegna che troviamo il mondo attuale sordido perché abbiamo la mente annebbiata. Ma quando il kokoro [29] (mente e cuore) è lucido, il mondo presente è un mondo spirituale. L’insegnamento mahâyâna ci mostra come dissipare l’illusione.

Se lo zazen fosse solo una forma di riposo per il cervello, sarebbe meglio sdraiarsi piuttosto che stare seduti in posizione. Ma non dobbiamo sdraiarci, perché ci vuole piuttosto una mente "che sta seduta", per vivere e lavorare. La reale funzione dello zazen non è far riposare la mente ma stabilire una sua base, o fondazione. Per stabilire tale fondazione, o baricentro, nella mente , dobbiamo:

1) Imparare la vera obbiettività
2) Rendere lucida la mente
3) Calmare lo spirito

Per fare ciò, star seduti è meglio che dormire. Il Sôtô zazen assomiglia, in superficie, a ciò che viene d’abitudine designato come contemplazione. Tuttavia, se contempliamo, stando seduti, un Dio creatore o un "principio fondamentale", o se trasformiamo un qualsiasi concetto o simbolo in tema mentale, andiamo allora dritti verso la malattia mentale. Non ci sarà mai illuminazione completa, fintanto che ci saranno concetti e immagini. Tutti i concetti, tutte le immagini sono relativi, e di natura fenomenica. Non dovremmo mai cercare di trattenere niente nella mente, perché sarebbe come voler conservare un bicchiere ricolmo d’acqua, sorvegliandola per evitare di versarne. La staticità non è vero zazen.

Il vero zazen è lasciar andare la mente e il corpo (shinjin datsuraku). [30] Ciò significa che nello zazen non c’è né oggetto né obbiettivo. Anche se dobbiamo fare del nostro meglio per trovare la Natura Cosmica nel cuore dell’infinità, questo non deve essere interpretato come u [31 (essere) o mu [32] (non essere). Quando dico che bisogna smettere completamente di discriminare, i cervellotici si sentono a disagio. Eppure questo disagio rivela una forma di egoismo. Vorrei però aggiungere che è assolutamente sbagliato volere rimuovere coscientemente l’ego dal vivere quotidiano. Mentre stiamo seduti, dobbiamo escludere ogni tipo di pregiudizio, ed eliminare ogni attività mentale intenzionale.

Ecco cosa significa che daienkyôchi è la condizione di Buddha, l’Infinità o Assoluto, nel quale non c’è più egoismo. La mente del Buddha è un grande specchio che riflette tutto, e che su tutto brilla. Quelli che si attaccano al relativo o al fenomenico non possono accedere a questa condizione. D’altra parte, l’illuminato non si sente diverso dagli altri.

Ma come possiamo raggiungere il daienkyôchi ? Già, perché dobbiamo evitare di attaccarci al nostro io. La funzione di uno specchio è rispecchiare quel che ha di fronte, rimanendo però calmo, malgrado il movimento di quel che riflette. E non è lo specchio a dar colore ai suoi riflessi. Dobbiamo cercare di conservare una mente-specchio, anche se in realtà abbiamo una volontà forte, responsabile tra l’altro dei nostri comportamenti conflittuali. Potremmo paragonare l’ego a degli occhiali scuri, attraverso i quali tutto sembra scuro. Smettiamo di attaccarci all’ego e ai suoi pregiudizi. Lo specchio è incolore, e riflette tutto chiaramente; e inoltre non perde niente, abbraccia tutto. La condizione della mente-specchio è difficile da raggiungere, sicché nell’avanzare dobbiamo essere coscienti dei nostri limiti. Il che vale anche per gli illuminati. Non dimentichiamo che è impossibile cambiare noi stessi o le nostre menti rapidamente e facilmente. E’ bene osservare chiaramente dove risiedono i nostri difetti.

Quando parliamo di personalità nel senso corrente della parola, alludiamo a qualcosa che riposa sullla personalità nel senso buddhista del termine. Dovremmo esser capaci di vedere quest’ultima nella prima. E dovremmo tenere in mente che finché non ci sarà vera universalità, esisterà tanto male nel mondo.

Poiché il vero fine dello zazen è disfarci del cieco egoismo, i Buddhisti criticano e a volte condannano il senso comune ordinario, che confondono con l’atteggiamento egocentrico. Ma anche gli illuminati utilizzano e sviluppano l’intelletto: ucciderlo significa uccidere l’umanità.

Quando sediamo, non dovremmo pensare di dover andare a parare da qualche parte, o all’illuminazione. Non dovremmo pensare a raggiungere l’illuminazione mentalmente o fisicamente. Non dovremmo crearla coscientemente. E inoltre, se ci affidiamo al "potere Altrui" (tariki), [33] non possiamo diventare illuminati. Dopo l’esperienza dello zazen, tutte le nostre attività devono diventare zazen; la pratica della meditazione non consiste solo nello star seduti, ma nella totalità del vivere. La cosa più importante per i principianti è lo stare seduti in silenzio. Nel Buddhismo, da tempi antichi, lo zazen è stato suddiviso in due aspetti, shi, [34] o fermarsi, e kan, [35] vedere. Dapprima, attraverso la posizione seduta, calmiamo i movimenti e le ondate del mentale di tutti i giorni; appare così la mente pura, capace di vedere la realtà delle cose.

E’ quel che chiamiamo shi. E dallo shi sorge il daienkyôchi, il vero carattere dello spirito, che rispecchia tutto così com’è: ciò che chiamiamo kan.

L’ideale calmo dello zazen trascende movimento e quiete relativi, poiché la calma di uno specchio è al di là di ogni tipo di movimento. Ecco perché nel Sôtô zen preferiamo non utilizzare la suddivisione in shi e kan. Preferiamo dire, invece, che lo shi è kan, e che kan è shi. Movimento e quiete non sono due cose e lo zazen implica che questa polarizzazione sia trascesa.

Il grande problema di quelli che seguono la nostra disciplina è il daienkyôchi. Il nostro koân del shikantaza è il genjô kôan. Dal punto di vista dell’honshô, o illuminazione originaria, ogni riflesso dello specchio delle nostre menti è una percezione della Pura Terra del Buddha, che chiamiamo genjô o la realizzazione presente: si tratta però per noi di un gran mistero, cioè, in pratica, di un kôan. Per i seguaci del Sôtô zen, il kôan originario è il genjô kôan; crediamo che ogni persona che segue la disciplina del kosoku kôan fa l’esperienza del grande satori attraverso il genjô kôan. In altri termini, la possibile realizzazione del daigo [36], o grande satori, passa attraverso il genjô.

Vorrei dire, per concludere, che i praticanti di zazen non devono confondere con l’illuminazione una visione della vita o della natura considerate come perfette. Questo tipo di visione non è il satori. Al di là della visione della purezza, appare una strana e indescrivibile attitudine mentale: piangiamo, ma piangiamo di gioia. E’ questa la vera esperienza del satori. Una sonora risata non è mai un segno di vera illuminazione [37]

Durante il nostro zazen, non dovremmo essere disturbati dagli oggetti di cui i nostri sensi possano renderci coscienti. Non possiamo rifiutare alle sensazioni di entrare nelle nostre menti, ma non dobbiamo attaccarci alle sensazioni. Quando ci sentiamo disturbati dai rumori o dalle voci durante le sedute, siamo lontani dall’esperienza del satori. Non dobbiamo preoccuparci di nulla. Le sensazioni in se stesse non sono mâyâ (illusione), o negative per la pratica; basta non attaccarcisi. Quando la mente è pura (limpida), i sensi sono una buona cosa.

Nella sfera del mâyâ, le menti si stabilizzano su un oggetto determinato, e si attaccano al mondo relativo delle piccole cose. L’uomo moderno non ama permettersi di arrestare la sua facoltà discriminante per allargare la sua prospettiva, ma questa non è un atteggiamento mentale sano. Quando la mente diventa vuota nel vero senso del termine, quando dimentichiamo l’esistenza della nostra mente, ci troviamo nella gioiosa meditazione di Buddha. E’ importante sforzarsi di assumere la giusta attitudine mentale zazen nel nostro quotidiano. E’ in questo modo che tutta la nostra vita diventa zazen.

Notes

[1] 僧堂 Sôdô : Un tempio con una sala di meditazione. Nella scuola Rinzai, si chiama 禪堂 zendô.

[2] 坐蒲 Zafu.

[3] Ciò non è permesso in altri sôdô.

[4] 実験 Jikken.

[5] 普勸坐禪儀 Fukanzazengi.

[6] 普賢 Fugen : Samantabhadra-Bodhisattva (Sanscrito), simbolo della compassione del Buddha.

[7] 文殊 Monju : Mañjusri-Bodhisattva (Sanscrito), simbolo della saggezza del Buddha.

[8] Secondo il 健康普説 Kenkô Fusetsu di 面山禪師 Menzan Zenji, si puó mettere sopra il piede destro il sinistro. 法燈国師 Hôtô kokushi dice (nel 坐禪儀 Zazengi) che la gamba destra sopra è autorizzata.

[9] 接心 Sesshin : Una seduta lunga di zazen.

[10] 印相 Inzô.

[11] 煩悩即菩提 Bonnô soku bodai : Mondo temporale e mondo spirituale sono una sola cosa.

[12] 力 Chikara.

[13] Uno 古則公安 kosoku-kôan è un episodio storico esemplare sull’esperienza dell’illuminazione dei maestri cinesi o giapponesi. I kosoku sono usati come supporto di meditazione nel Rinzai dal punto di vista Sôtô, i kosoku sono espressioni del 現成公安 genjô-kôan considerato come il kôan primordiale e senza forma. Su questo, si veda il testo pag. 10.

[14] 只管打坐 Shikantaza : Concentrarsi completamente nello star seduti (zazen).

[15] 本證 Honshô.

[16] 本證妙修 Honshô myôshû.

[17] 惛沈 Konjin.

[18] 無想定 Musôjô.

[19] 正念相續 Shônen sôzôku.

[20] 掉擧 Jôko.

[21] Quelli che non hanno un background buddhista possono vedere dei lampi di luce, che possono essere associati a dei momenti di comprensione. I cristiani li vedono a volte associati a dei simboli della loro religione.

[22] 警策 Kyôsaku : Nel Rinzai, si dice piuttosto keisaku.

[23] 合掌 Gasshô : Gesto delle ani giunte in posizione di preghiera: la mano sinistra simbolizza il mondo dei fenomenale, la destra quello spirituale.

[24] 大圓鏡智 Daienkyôchi.

[25] Secondo il Vijñânavâda, la mente illuminata è di quattro tipi, e quella secolare di otto I quattro tipi di mente illuminata , o quattro saggezze, sono :

Quattro Saggezze

  • 大圓鏡智 Daienkyôchi (âdarsa-jñâna - il gaio samâdhi del Buddha ottenuto all’ottava jñâna)
  • 平等性智 Byôdôshôchi (samatâ-jñâna - la compassionevole saggezza del Buddha ottenuta alla settima jñâna)
  • 妙観察智 Myôkanzatsuchi (pratyaveksânâ-jñâna - la saggezza predicante del Buddha ottenuta alla sesta jñâna)
  • 成所作智 Jôshosachi (krtyânusthâna-jñâna - la saggezza pratica del Buddha ottenuta attraverso i cinque sensi)

Gli otto tipi di mente secolare sono le otto parijñâna (forme di cognizione, percezione o consapevolezza)

  • 1) 眼識 genshiki (caksurvijñâna = vista)
  • 2) 耳識 nishiki (srotra-vijñâna = udito)
  • 3) 鼻識 bishiki (ghrâna-vijñâna = odorato)
  • 4) 舌識 zetsushiki (jihvâ-vijñâna = gusto)
  • 5) 身識 shinshiki (kâya-vijñâna = tatto)
  • 6) 意識 ishiki (mano-vijñâna = mentalità ; senso mentale o intelletto)
  • 7) 末那識 manashiki (mano-vijñâna = capacità di discriminazione)
  • 8) 阿頼耶識 arayashiki (âlaya-vijñâna = riserva dei “semi” di ogni tipo di coscienza)

[26] In questo contesto, l’egocentrismo non deve essere percepito come egoismo nel senso ordinario del termine, ma come una incapacità a capire la vera natura dell’ego e la sua relazione col cosmo e le altre forme di vita. Una tale visione non è l’astrazione filosofica di una unità estrinseca di parti aggregate, pronte a separasi in caso di conflitto, ma la consapevolezza totale del Genjôkôan.

[27] 我執 Gashû.

[28] 法執 Hosshû.

[29] 心 Kokoro.

[30] 身心脱落 Shinjin datsuraku.

[31] 有 U.

[32] 無 Mu.

[33] 他力 Tariki.

[34] 止 Shi.

[35] 觀 Kan.

[36] 大悟 Daigo.

[37] Si racconta che certi monaci buddhisti e taoisti abbiano manifestato il satori con una grande esplosione di riso.


Vous êtes ici : Sommaire général >>> La méditation >>> La via dello zazen (Rindô Fujimoto)



| Accueil - Sommaire | La méditation | Activités - Groupes | L'enseignant | Toucher le cœur | Les rendez-vous | Qu'est-ce que le Zen ? | Orient-Occident | Essais | Causeries | Enseignements | Textes classiques | Télécharger | Le réseau BASE | Le blog zen | Bodhidharma | Dôgen | Gudô | Jiun sonja | Album photos | Expériences | Les digressions | Humour | Les bouquins | La foire aux questions | Poésie | Section membres | Les mises à jour | Le plan du site | Nous soutenir | Mentions légales |